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    Un’altra vita mi darai…

    Antonio, ricordate? Finito poco più che diciottenne in un ospedale psichiatrico giudiziario grazie a un perverso gioco di rimandi fra giustizia e psichiatria. La sua assurda vicenda Gatto Randagio l’ha raccontata l’estate scorsa (http://www.remocontro.it/2015/08/23/gatto-randagio-vera-follia-rimbalzi-giustizia-psichiatria/ )… E come tutti quelli che hanno seguito la storia si era in attesa che il Tribunale di Sorveglianza si pronunciasse sul ricorso contro la condanna a quattro anni di Opg in misura di sicurezza detentiva.
    Ebbene, la pronuncia c’è stata, all’inizio di febbraio, ma s’è aspettato un po’ a dirlo. Forse un po’ per scaramanzia, forse un po’ perché dopo tanto dannarsi e tanto lottare contro le maglie di meccanismi paradossali e crudeli, c’è bisogno di riservarsi del tempo, c’è bisogno di tenere dentro di sé la gioia, accarezzarla con tremore, difenderla dal frastuono del mondo…
    Ma la notizia è che Antonio è finalmente fuori delle mura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, dove ha trascorso, chiuso in una cella, gli ultimi otto mesi.
    E’ successo che (…)un’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Reggio Emilia, del 4 febbraio scorso, riconosce inutile la misura detentiva in Opg, e mette Antonio in libertà vigilata, affidandolo al servizio psichiatrico territoriale di Vicenza e Trieste, accogliendo il progetto terapeutico riabilitativo che da tempo era pronto per lui.
    A raccontarmelo, quasi solo sussurrando, a tratti, emozionato, è Peppe Dell’Acqua, che giorno dopo giorno ha seguito questa vicenda, insieme con due giovani avvocati, Marco De Martino, napoletano, e Luca Alifuoco, vicentino. Una sorta di “soccorso rosso”, che ha portato la vicenda di Antonio fin davanti alla Commissione dei Diritti umani del Senato.
    Il magistrato del Tribunale di sorveglianza infine ha ascoltato e dato fiducia a chi pensa che Antonio ha semplicemente bisogno di riprendersi un po’ della sua vita, ben considerando anche quanto riferito dalla stessa equipe dell’Opg di Reggio. Quindi, si legge nell’ordinanza, “l’attuale sistemazione non sembra essere in grado di garantire le prioritarie esigenze di cura, risultando eccessivamente sbilanciata dal lato del mero contenimento e della sicurezza collettiva, peraltro in modo comunque deficitario e a medio termine (laddove una cura mirata ed efficace coglierebbe nell’ulteriore intento di garantire una vera ed effettiva sicurezza sociale a lungo termine)”.
    E a pensarci bene il nodo è proprio in questa considerazione messa tra parentesi, che una parentesi proprio non è: individuare ciò che possa servire a curare Antonio, rispondendo “all’urgenza terapeutica di sottrarlo da luoghi chiusi e stigmatizzanti”, perché non è costringendo in schemi rigidi che ci liberiamo dell’inquietudine che il confronto con la malattia mentale fa nascere in noi.
    Sarebbe da leggerla tutta l’ordinanza, anche per gli elementi di umanità che vi si trovano, l’accenno alla giovanissima età di Antonio, la riflessione ponderata, sofferta anche, sulle misure adatte a tutelare sì la collettività, ma che siano per Antonio “la migliore cura possibile”, e non esasperanti nuove prigioni.
    Che se questo fosse stato il sentire, la logica seguita fin dal primo intervento dell’autorità giudiziaria, si sarebbero risparmiati ad Antonio gli ultimi due anni di buio e terrore. Alla luce dell’ordinanza del giovane magistrato appaiono oggi ancora più ingiuste le sentenze sorde e disumane che Antonio ha dovuto sopportare.
    Ed è piena di emozione la voce di Peppe dell’Acqua che racconta della telefonata che Antonio gli ha fatto, appena messo piede fuori dell’Opg. “Peppe, è finito l’incubo… sto andando a Trieste!”.
    Ad aspettarlo all’uscita c’erano gli operatori del Dsm di Trieste e della piccola Comunità che lo accoglierà. Tra gli altri anche Matteo, lo psicologo della comunità familiare di Vicenza che l’aveva ospitato per due anni, prima del ricovero al Servizio di Diagnosi e Cura di Vicenza, dove era stato contenuto e infine avviato all’Opg. Proprio quel Matteo “vittima” dell’aggressione, secondo i giudici, che ha scatenato su Antonio l’inferno degli ultimi anni.
    Come è iniziata la nuova vita di Antonio? Sosta in autostrada, un panino al prosciutto e un selfie da mandare a mamma e papà. A Trieste sarà ospite inizialmente del Centro di salute mentale della “Maddalena”, il tempo per familiarizzare con gli operatori e con un altro Matteo, psichiatra, che è il coordinatore del programma “terapeutico riabilitativo individuale”. Subito dopo l’arrivo, accompagnato da due giovani operatori della piccola comunità che lo ospiterà, ha “esplorato” Trieste, che mai aveva visto. Immaginate la gioia, in una giornata di sole e vento, dopo tanto buio. Poi il pranzo nella comunità educativa che ospita non più di sei ragazzi e ragazze, con un gruppo di operatori giovani e motivati. L’abbraccio di Ornella, nella grande casa circondata da prati e alberi. E già si allarga il respiro…
    Antonio è finalmente tornato “in un ambiente di cura, di vita e non di destino”, come dice Dell’Acqua. La fine di un incubo, viene da dire con lui. Ma non è la fine della storia. Che qui ricomincia.
    Dopo due anni di strazio, le tante contenzioni di Castiglione delle Stiviere e l’isolamento durato 8 mesi in una cella dell’Opg di Reggio Emilia, l’ultimo incubo dei quali la sua giovane vita pure è stata piena, c’è bisogno di tempo. Che è, soprattutto, tempo di relazioni. Nel senso proprio del ritrovare intorno a sé persone che ascoltano.
    Ah, dimenticavo. Il venerdì sera, karaoke. E’ la cosa che Antonio più desiderava. Cosa ha cantato? La canzone di Adriano Celentano, “L’emozione non ha voce”. Ricordate? “Un’altra vita mi darai..”.

    un aggiornamento dell’ultima ora… Oggi pranzo “in famiglia”. Ha cucinato Antonio: pasta col tonno e olive (e soffritto di cipolle) come piace alla mamma e poi budino perchè il papà ne va ghiotto!

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