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    dipingere la morte, dipingere la vita…

    ceija stoicaGiorno della memoria… torno, permettete, sullo sterminio degli altri, di quelli di cui raramente si parla. Il genocidio di sinti e rom, Porrajmos, “grande devastazione”, in lingua romanì.
    C’è un libro nel quale inciampai tempo fa. Un libro che trasmette tremore fin dal titolo: “Forse sogno di vivere”. Ma è il sottotitolo che, così, semplice e didascalico, apre le porte sullo strazio della storia: una bambina rom a Bergen-Belsen. Un libro da avere fra le mani. E’ stato pubblicato una decina d’anni fa in Italia da Giuntina nella collana Schulim Vogelmann.
    E’ rievocata, la bambina che è stata, da Ceija Stojka, che era nata del 1933 in un paesino della Stiria, che fu deportata a Bergen-Belsen con la madre quando aveva undici anni, e che cinquant’anni dopo racconta, ritrovando lo sguardo e le parole della bambina di allora. Le parole dello stupore di fronte a una quotidianità fatta di violenze, di fame, di tormento, di immagini di morte che si fa fatica a immaginare. Stupore rimasto intatto, più di mezzo secolo dopo, perché: “mi volto, dice, e sono ancora lì”. (…)
    Non c’è traccia di odio nel racconto. Semplicemente un narrare lucido e ostinato, per chiedersi e chiedere, ancora: come è stato possibile? E testimoniare la volontà di vita. Sono pagine di una cantatrice, che come in un lamento senza lamento culla il ricordo di quei giorni, di lei, della sua mamma…
    Ascoltate: “La cosa peggiore per noi era l’arrivo dei treni alle tre di notte. Senti quello stridore di freni e senti come camminano gli esseri umani, come vengono incalzati dai kapò e dai soldati coi cani. I cani guaiscono, il rumore sale fino al cielo. Poi senti come i loro vestiti strisciano sul terreno, come si preparano per entrare nel crematorio. Poi, per un po’, non senti più niente. Poi c’è solo silenzio, capisci? E poi, all’improvviso, soffia un alito di vento e l’odore penetra nella baracca. E mia madre ha sempre detto: – Tra gli ebrei ci sono sicuramente pure rom. Dove saranno le tue nonne?”
    Ancora: “Spesso la mamma mi ha detto:- Se vuoi morire Ceija è semplicissimo. Ci sdraiamo, siamo così stanche che ci addormenteremo facilmente e dormendo ce ne andremo. Non abbiamo bisogno d’altro, bambina mia. Ma poi non vedrai più né Mongo, né Karli, non la Mizzi né Kathi, che forse però saranno ancora vivi! Forse!- In quel momento è nata la tua forza di volontà e hai guardato dove fosse un po’ d’ortica, dove sul mio albero fosse spuntata una foglia”.
    Un po’ d’ortica, qualche foglia da mangiare… Ritrovando dentro di sé, ho immaginato, la memoria di quando gli zingari avevano le ali, e per vivere non dovevano mendicare e rubacchiare. Di quando volavano con gli altri uccelli, e quel che mangiavano gli uccelli mangiavano anche loro. Questo oggi non lo ricorda più nessuno, ma è storia di cui sono certa. Ne ho letto in un libro di quel fantastico viaggiatore nella storia di popoli che fu Charles Leland, “Magia degli zingari”, di cui pure vi leggerei qualche pagina, ma che ora non ho perché l’ho regalato a Francesco, un giovane rom che in carcere, nelle letture, sta cercando le tracce della sua storia.
    Dunque, una bambina a Bergen-Belsen. In attesa che in qualche modo la mamma cuocia l’unica patata, Ceija va a fare un giro… “ecco il mucchio dei morti, la montagna, e ci passeggio attorno come un topolino. Sto in mezzo ai cadaveri, guardandone uno capovolto, oppure uno girato come si deve. Semplicemente come si deve”. Racconta, cinquant’anni dopo, Ceija Stoica. Ancora stupita, sembra, di essere viva. Dopo tanto convivere con la morte.
    Ceija Stojka è morta tra il 28 e il 29 gennaio di tre anni fa, a 79 anni. Mi colpì moltissimo quel suo racconto, e la forza del suo narrare, che a tratti ho letto e riletto. Cercando ancora tracce di lei, che è poi vissuta a Vienna facendo la venditrice ambulante, e che è stata pittrice e musicista, e ha scritto poesie e racconti in lingua rom e attraverso le sue opere ancora ha testimoniato quella terribile esperienza, lei che in un’intervista aveva detto “In ogni momento della mia vita ricordo Auschwitz”. Ammonendo: Auschwitz non è morto, ha detto, sta solo dormendo. E i suoi dipinti sono ricordo del tempo della morte, che è cosa che sempre rimane nell’anima.
    Quadri, che sono retate a spezzare la vita libera fra i boschi, che sono treni di morte in viaggio verso un orizzonte bruciato di fuoco, che sono l’ombra di sua madre fra ghiaccio e filo spinato, e corpi e capanne e camini di fumo…
    Ma sono anche, i suoi dipinti, colori vibranti vita. Perché Ceija è sempre rimasta la bambina che “mamma, quando uscirò di qui facciamoci un bel vestito! Un vestito arcobaleno!”. “Ah!, vuoi dire un vestito come quello che ti ha fatto tuo padre col tessuto di quel vecchio ombrello”. “Certo,- ho detto- voglio averne uno proprio uguale”.
    Pensando allo sterminio dei rom. Di cui troppo poco vogliamo sapere. Pagina della storia di un popolo che, ha ricordato Moni Ovaidia quando l’ha proposto per il Nobel per la pace, non ha mai fatto la guerra a nessun altro popolo.

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