Tornando a casa. Nel caldo pomeriggio affollato del metrò. Le scene di sempre. Visi stanchi, frotte stupefatte di turisti, mani che spingono, volti che sudano, qualcuno che ride, qualcuno che borbotta, qualcuno che già dorme. E ressa alle porte, gomiti nei fianchi, piedi che calpestano. Che è sempre il rischio più grande. Ad una fermata salgono un uomo e una donna. Lei piuttosto truccata, lui di un grigio gentile. Forse amici, forse il sospetto di un garbato corteggiamento, come accade fra persone di una certa età. Nello scambio fra la gente che preme per entrare e la gente che preme per uscire, vengono spinti, sballottati, messi in un angolo. Sul volto di lei si disegna una smorfia di inquietudine. Lui continua a sorridere, mentre in qualche modo fa scudo col suo corpo prosciugato al corpo più corposo di lei. Sorridente e gentile. La rassicura. Basta che stai attenta ai piedi, le dice, attenta a che non ti calpestino. Basta che stiamo fermi in quest’angolo. Che fra non molto si riscende. Sarà breve, sarà breve. E poi, come recitando un versetto, Bisogna avere fiducia nel futuro, dice, bisogna avere pazienza nel presente, dice. Gocce di saggezza, come un brillare inatteso di lucciole, nel buio di questi tempi amari. Quel che basta, e più lieve diventa il resto del viaggio…
In metro
… sulla baia…
ecco, vedete…. c’e’ gia’ una nave ferma nella baia… Hanno ammainato le vele, per non essere sorpresi da venti improvvisi che li respingano lontano… aspettano che sorga la luna, che passi la mezzanotte… quando i sogni diventano veri…
(La nave fantasma, foto di Daniela Morandini)
Fantasmi
Leggendo, dell’incendio nella discarica dei barconi, a Lampedusa. Guardando, le foto del fumo di quel che restava dei legni che hanno traghettato uomini da una riva all’altra del Mediterraneo. Conservati lì, a due passi dal mare, in attesa di farne il più grande museo mediterraneo dell’immigrazione. Resti di memoria, che qualcuno si è affrettato a cancellare. Leggendo, del professor Pietro Busetta, assessore ai Beni culturali di Lampedusa e Linosa, che se ricorda che la Sicilia non è nuova ad episodi come questo, e ricorda gli incendi, dolosi, che sulle Madonie o sui Nebrodi distruggono ettari ed ettari di alberi secolari, aggiunge che questa volta c’è qualcosa di più e di peggio. Si vuole distruggere, dice, la memoria di un passaggio. Ma a dispetto di chi vuole azzerare un patrimonio di ricordi di una generazione di migranti, già senza volto, oggi anche senza tracce, assicura che il museo si farà. A dispetto dei nuovi barbari. Un museo dei migranti, dunque. Che a Lampedusa affiancherà, assicura Busetta, il progetto di salvaguardia dei resti di un altro storico passaggio. Quello dei cristiani del secondo secolo dopo Cristo. Altri ultimi della storia. In attesa dunque di una casa della memoria. E c’è da augurarsi che si costruisca in fretta. Perchè gli uomini sempre tornano nei luoghi dai quali sono volati via. A guardare bene, il mare, laggiù, già si affolla di navi fantasma…
Angeli feriti
Pensando, e ripensando. All’assassinio del sindaco. Che sapeva dire no. E ha detto, ha detto qualcuno, un no sbagliato. Angelo Vassallo. E chiedersi che paese è mai questo. E chi siamo noi. Che sappiamo di no che si possono dire e di no che è meglio tacere. E persino ci sembra cosa normale. Pensando e ripensando, senza trovare parole e forse neppure più pensieri. Solo leggendo, come aprendo un breviario, alcuni versi: “Dal finestrino, guardo. Grovigli / di umanità perduta. / Da brutto a brutto / Vaga e si attrista / L’occhio. Sii forte / Mia vista, vèstiti a lutto. // Il treno ignora tutto / O è bestia che sopporta. / Io con pena porto / Crescente la mia croce. /(…) “. Versi di Guido Ceronetti, come una preghiera, da Le ballate dell’angelo ferito.
Zingari e Madonne
Tornando, da un sit-in contro le espulsioni dei rom dalla Francia. Contro la politica di Sarkozy, che non ottanta, ma ottomila, ci dicono, ne ha cacciati dai confini francesi. Quando fu eletto presidente, i rom accolsero la notizia con piacere. Sarkozy, che ha dimenticato d’essere figlio di un rom ungherese, e di un’ebrea sefardita… Un sit-in contro, anche, la politica di casa nostra, e dei “piani” che stanno allontando gli zingari oltre i confini di tutte le periferie. Contro la brutalità delle ruspe, che chi non le ha viste in azione, schiacciare il nulla delle proprie cose, è difficile capisca. Vederli, quei bambini qualche ragazzo e le donne, quasi in divisa da collegio, con magliette con su scritto “I love rom a” ti si stringe il cuore. Più che per le parole di chi sale sul palco a parlare, che poi palco non c’è. Più che al constatare che sono davvero in pochi, al sit-in romano. Pochi zingari, confinati chissà dove, pochissimi italiani, perché forse ancora non fa trend. Marciare per gli zingari, intendo. Ti si stringe il cuore, per quegli zingari in divisa e non sai perché. La risposta, nelle parole di un’amica, Roberta. Da quando sono costretti in qualche modo a mimetizzarsi e vestirsi come noi, dice… da quando le donne non indossano quasi più le loro belle gonne colorate… Abbiamo perso, dice, le nostre farfalle. Una preghiera, allora, perché le farfalle ritornino come, da qualche parte nascoste, pure sono tornate le lucciole. Una preghiera alla Madonna degli Zingari, che così superbamente Tiziano dipinse.
Pensiero di settembre
“Da quando nella nostra Francia ci si è messi a filosofare, intromettersi in tutti i fatti della ragione e a non voler dar più credito alla verità, la magia e molte altre cose hanno perduto il loro pregio. I sortilegi, i filtri, gli incanti tanto celebri un tempo e così temuti dai nostri avi, non hanno più chi li tenga in stima. Si gabbano gli zingari che dicono la buona ventura, non si cerca più chi sa far le carte, ci si beffa persino di quelli più a nel leggere l’avvenire in un bianco d’uovo o nella colatura del caffè”. Osservazioni di Jean-Pierre Claris de Florian. Per Rosalba. Ah, la magia… e molte altre verità. Chissà, quest’autunno, forse…
(Jean-Pierre Claris de Florian, Rosalba, Sellerio editore, Palermo)
Tajabone
In attesa dei film del festival di Venezia. In attesa soprattutto del film di Salvatore Mereu. Ricordate? Ballo a tre passi, ma soprattutto, Sonetàula, straordinario racconto sul banditismo sardo. Aspettando con curiosità, un film girato con 10.000 euro. Tajabone. Scritto da 5 ragazzi di 13 anni. Nato in collaborazione con le scuole medie di due quartieri “non facili” di Cagliari. In attesa dunque di quello che Abdullah Seye, Angelica Argiolas, Sara Portoghese, Andrea Amhetovic e Erica Spissu, vogliono dirci. Guidati dalla mano felice di Mereu, che si dichiara lui stesso sbalordito per la selezione in concorso. Per la cronaca, nella sezione Controcampo italiano. Forse alla mostra del cinema di Venezia non c’è mai stato un film con un badget inferiore. Felice, Mereu, soprattutto per la realizzazione di un progetto che “sembrava impossibile”. E noi aspettiamo di sapere, cosa questi ragazzi hanno da raccontarci sulle loro vite, cosa soprattutto hanno da svelarci sul tema che hanno scelto, che è quello dell’amore. Fra gli attori ragazzini anche rom e senegalesi. E chissà che non arrivi finalmente da loro la risposta al grido di Auden. La verità, vi prego sull’amore. In attesa dunque di Tajabone, che, leggo, è anche il titolo della canzone che chiude il film. E che è una festa musulmana. Il giorno dell’accoglienza, giorno in cui gli angeli scendono sulla Terra per sapere degli uomini… La verità, dunque, sull’amore…
Fiabe
Ancora, tornando. Ripensando alla piccola chiesa di Santa Maria di Castellabate, e alla sua santissima protettrice. La Madonna del Mare. La cui casa non poteva che posarsi lì, sul limite della spiaggia, con la sabbia che arriva d’estate bollente fino alle sue mura e d’inverno, immagini, vi arriva anche l’acqua gelida delle mareggiate. Appena più a sud, della casa dell’altra Maria, quella che è arrivata addirittura da Costantinopoli, su un’onda che l’ha sospinta fin sul promontorio di Agropoli, e lì l’ha lasciata, a proteggere la vita dei marinai. Sicuramente dall’una all’altra casa, quella lassù in alto, questa quaggiù in basso, le due Marie si parlano. Magari la notte di nascosto s’incontrano. E quando tutto si sono dette della giornata della loro gente, si scambiano, ne sono certa, il racconto di fiabe. Ne ho letta una anch’io, nel libro trovato aperto sul leggio della chiesa sulla spiaggia, nella piccola navata di destra, quella dell’adorazione. Parlava di Gesù che, seduto in riva a un lago, circondato da tanti bambini, iniziò col raccontar loro una fiaba… C’era una volta...
Solidarietà, dal carcere
Solidarietà ai lavoratori della Fiat di Pomigliano. Dopo averne ricevuto alcuni volantini, arriva dai detenuti del carcere di Spoleto. Molti di loro, ricordano a chi non sapesse, sono in carcere perché fuori da giovani non hanno trovato lavoro. E sono quasi tutti del Sud. Le loro parole, dunque, per gli operai di Pomigliano:
“La stragrande maggioranza dei detenuti in carcere è in ozio istituzionale e quei pochi detenuti che lavorano sono sottopagati, sfruttati e non hanno nessuna copertura sindacale. Il lavoro in carcere nella sua accezione più ampia svolge una duplice funzione: una personale, perché serve alla realizzazione umana e al sostentamento materiale del detenuto, e una sociale perché facilita l’inserimento di un cittadino che ha sbagliato e che sta pagando il suo debito alla società. Dal lavoro in carcere devono scaturire vantaggi anche d’ordine psicologico e sociale e il detenuto deve essere avviato al lavoro non tanto per essere sottratto all’ozio avvilente, quanto perché è un essenziale strumento di rieducazione e di reinserimento sociale. L’ozio forzato non fa parte della pena cui siamo stati condannati, ma è un’afflizione aggiuntiva che nessun tribunale ci ha elargito. Ma se il lavoro in carcere è importante, nel mondo libero lo è ancora di più. Per questo abbiamo deciso di dare solidarietà ai lavoratori della Fiat di Pomigliano. I detenuti e gli ergastolani del carcere di Spoleto ricordano ai padroni e agli azionisti della Fiat che l’uomo è e vale specialmente per quello che fa, non per quello che ha o per le azioni che possiede”.
Ritornando. Fiori di tulle…
Ritornando. Da Santa Maria di Castellabate. Portando negli occhi il volo di colori di una teoria di balconi infiorati di batuffoli di tulle. Veli, come bomboniere lasciate a dondolare nell’aria di sale. E ricordare, ascoltata nel piccolo locale affacciato sulla strada, all’ombra di quelle aiuole aeree, la storia di Ginetta. Alla quale la vita troppo presto ha portato via l’uomo. Lasciandola sola, con cinque figli e i genitori di lui, come Lari da curare. E sarebbe potuta impazzire, Ginetta, che in quei giorni terribili più non sapeva. Non sapeva cosa fare, non sapeva come fare. Non sapeva chi era. Non sapeva più quale fosse lo zucchero e quale il sale. E che si era arrabbiata moltissimo quando si è vista arrivare il bigliettino delle suore, quelle, lassù, che curavano l’asilo degli orfani. Ginetta, diceva il biglietto, vuoi fare qulcosa per noi? Vuoi aiutarci?… Aiutarle! proprio lei, che non aveva nulla, ora che aveva perso anche il suo amore e aveva cinque figli e i genitori di lui a cui pensare. Che sfrontate! Ginetta, si era proprio arrabbiata moltissimo. Ma poi qualcosa è successo…