Venti anni e circa uno, due giorni fa, a berlino… Appunti…
10.12.BerlinKleist Park, il Palazzo del Controllo Alleato. Qui nel settembre del 71, le quattro potenze vincitrici firmarono l’accordo che stabiliva che Berlino non apparteneva alla Repubblica Federale, anche se ne confermava il legame molto stretto. Domani, 11 dicembre 89, ad un mese dall’apertura delle frontiere, si riuniranno ancora. La richiesta, probabilmente, e’ partita da Mosca. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Urss hanno all’ordine del giorno i problemi aereonautici. La gestione dei corridoi aerei, del cielo sopra a Berlino. Ma e’ evidente che il dopo Muro sara’ in primo piano. E’ probabile che un giorno di discussione non basti. Piu’ in la’,oltre
Ritornando a Berlino, e riaprendo il taccuino di Daniela Morandini, alla pagina di esattamente venti anni fa.
Il discorso di Alessandro Gilioli dal palco del NoBDay. Vale la pena di rileggere.
A glimpse, of Rome, last weekend. Uno sguardo, che è un battito di ciglia. Per cogliere questo passo figurato di tango. Il tango, diceva Astor Piazzolla, è un pensiero triste che si balla. E questo pensiero è tutto qui. Nei passi inchiodati a un soffio da terra. Nel gesto delle ginocchia che si sfiorano, e chissà se di nascosto si toccano. Nel disegno rigido e morbido dei corpi. Nello sguardo attento di lui. Nel profilo nascosto di lei. Nella mano destra di lei, poggiata sul palmo della mano sinistra di lui. Nel braccio di lui che avvolge la vita di lei. E la stringe, come ad afferrare per l’ultima volta cosa già persa. IL tango, questo pensiero triste che si balla. E’ tutto nello sguardo della donna sulla sinistra. Che senza guardare guarda la coppia. O forse guarda solo il vuoto che la separa da loro. E tutto quello che sa di avere già perso. Struggente glimpse of Rome, di Eyal Baruk
Più o meno esattamente venti giorni fa. Marrakesh. Nel gomitolo di strade. Troppi gattini ammalati. Troppi asini straziati. Sotto pesi impossibili che curvano le zampe lì lì pronte a spezzarsi. Troppi morsi troppo grandi. E lingue gonfie e arse da troppa sete. Troppi uccelli in gabbie troppo piccole per almeno allargare le ali. Occhi sbarrati nel silenzio e gorgheggi disperati d’animali perduti. Troppi serpenti tramortiti. Troppo anche l’unica scimmietta al guinzaglio. Troppi ciechi per strada. Troppe donne agli angoli, mamme troppo bambine, bambine già troppo vecchie a chiedere l’elemosina di un dirham…
Esattamente, più o meno venti giorni fa. Marrakesh. E’ svegliarsi al mattino al canto degli uccelli del cortile di un riad. Dove mani silenziose accudiscono, puliscono, preparano. Dove ogni cosa è perfezione e armonia. E’ tempo tessuto intorno allo spazio cortese di un giardino di palme che è cuore della casa. Che è luogo aperto allo spazio dell’aria. Che è via di comunicazione fra il dentro e il fuori, e parla direttamente con il cielo. Marrakesh, esattamente più o meno venti giorni fa, nel riad di un signore venuto da Parigi, è avviarsi nel giorno con il canto al mattino di Grieg, ritrovare sul comodino accanto al letto letture di venti e più anni fa, aspirare con l’aroma della frutta sciroppata il tempo lento di tutta la tranquillità del mondo. Prima di varcare la porta, e buttarsi nel gomitolo affollato delle strade…
Pensiero d’autunno inoltrato. Seguendo il fumo e il profumo delle caldarroste. Da scoprire su un marciapiede di via del Corso. Sull’angolo con una delle strade che salgono verso piazza di Spagna. Il caldarrostaio è un uomo del Bangladesh, ha un berretto bianco da fornaio, e sta parlando al cellulare. E tutto questo ha un che di surreale, come l’odore delle castagne arrosto e il caldo delle braci. In un giorno sporco di afa, come tanti, in questo strano autunno avaro d’autunno. Ma poco più avanti, all’angolo successivo, è riprodotta la stessa scena. Il fornellone su cui arrostiscono le castagne, accanto un uomo, del Bangladesh (o dell’India? Ma per noi fa quasi lo stesso…) con un berretto bianco da fornaio, esattamente uguale a quello del caldarrostaio seduto poco più avanti… Tempo fa, in un articolo di un quotidiano che non ricordo, un uomo del Bangladesh parlava del suo lavoro, spiegando come veniva sfruttato… Vendeva caldarroste, pagato poche lire, dodici ore sulla strada, controllato a vista dal ‘datore di lavoro’. Che, per la cronaca, era un italiano. Lo stesso italiano, forse? Che ora ha messo in piedi l’impresa che trucca d’autunno questo mesto novembre … l’ultimo travestimento della catena che sfrutta lavoro immigrato… ? Forse. Oppure no. Magari si tratta di una cooperativa di organizzatissimi immigrati. In ogni caso, sembriamo indifferenti anche a questo… e come tutto, senza un sussulto, ci scivolano davanti agli occhi anche queste figure… improbabili statuine, che quest’anno prendono posto, nel presepe senz’anima del nostro Natale senza Natale.
Casablanca. Esattamente venti giorni fa.