L’ultima notte che mi è venuto a trovare, era ancora sera. L’ora che si esce a passeggio sul corso grande della città. E siamo definitivamente insieme, con tutto il peso della gioia e del dolore. Lui è alto alto, troppo alto e indifeso, che io devo coprirlo con il mio braccio, perché qualcosa, che non capisco cosa sia ma so esserci, nel colpirlo non lo ferisca. E lui, docile, così alto alto, riesce a rincantucciarsi sotto il mio braccio. Indossa ancora un abito nero, ma di lieve trascuratezza, che non gli appartiene. Con altri amici che non riconosco ma so di conoscere, entriamo a visitare una vecchia chiesa, ed è lui che si fa scuro in volto, perché c’è qualcosa nell’aria che non va. E’ molto, molto preoccupato. E leggo la paura che si fa incubo nei suoi occhi puntati verso l’alto. A guardare lampadari, lassù sotto la volta, che sono candelieri di fiamma viva, ma le fiammelle delle candele accese sono piegate verso sinistra, e a sinistra flettono i bracci dei candelabri, come spinti da soffio invisibile che pieghi il metallo. Di presenze paurose… che quando, per fuggirle, svegliandomi, apro gli occhi, sono ancora accanto a me…
Fantasmi…
La quarta notte ancora bussa alla mia porta. Ma c’è subito qualcosa che non va. La finestra, della stanza dello studio, sono sicura di averla chiusa. Eppure le persiane sono aperte, in asimmetria di braccia quasi arrese. E lui è più grande, più cupo, più vecchio. E preoccupato… E viene da altro sogno, di altro amico, che pure è andato a trovare indossando quei pantaloni stretti stretti, sulle gambe lunghe lunghe e magre magre… E questa volta non riesco a capire se almeno qualche istante con me si è fermato…
La giustizia che non c’è
Marco Bazzoni-Operaio metalmeccanico e Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza-Firenze, ci scrive di Antonio D’Amico, che morì schiacciato da un muletto alla Fiat di Pomigliano D’Arco il 6 Marzo 2002. E ci aggiorna: “Nonostante ci fossero prove schiaccianti contro i responsabili, il 22 Marzo 2012, il giudice della Corte D’Appello ha dichiarato prescritto il reato. La solita vergogna italiana!!! Suo figlio Rosario non sa darsi pace, ed intanto i mezzi d’informazione non ne parlano”.
E questa, è la lettera che ci manda.
“Buongiorno, mi chiamo Rosario D’Amico e Le scrivo da San Giorgio a Cremano (Na). Le scrivo con la speranza di trovare la voce giusta per far ascoltare le mie grida di dolore. La storia che Le racconto vede come protagonista un uomo semplice, che ha lasciato nel mio cuore e nei cuori di tutta la famiglia, tanti insegnamenti ricchi di bellissimi valori e di tanta onestà. Questo eroe senza medaglia è mio padre D’amico Antonio una vittima sul lavoro.
Nel marzo del 2002 alle ore 6.30 nello Stabilimento Fiat di Pomigliano D’arco, quella maledetta mattina è stato travolto dal muletto violentemente, come descrive la dottoressa Castaldo nell’esame autoptico. Un carrello guidato da un operaio con contratto a scadenza, quindi privo di ogni diritto lavorativo. Dopo l’incidente ci siamo affidati alla giustizia, volevamo giustizia. Purtroppo la giustizia non esiste, Giovedì 22 Marzo nell’aula 5 della Corte di Appello di Napoli il giudice prescrive il reato, dopo aver rinviato anche lui tre volte le udienze: dopo il danno, la beffa. Ci siamo sentiti trattati male, la polizia ci ha circondato e noi senza dire una parola ,ma increduli cercavamo di capire. Il reato è prescritto?! Ma come, nessuno ha mai parlato di prescrizione nè il pm, nè gli avvocati della controparte. Avrei tante cose da dire, ma in questa semplice email vi chiedo aiuto.
Mio padre non può finire cosi! Vi chiedo solo di chiamarmi, vorrei far sapere all’opinione pubblica la mia storia fatta di vera ingiustizia…”
Fantasmi…
La seconda notte che è venuto, ancora era sera… ma forse era già un pò più tardi. Già avevamo percorso il corridoio che portava sulla strada, ed eravamo su una piazza lastricata di larghe pietre che poteva essere una campo di Venezia, o una corte di chissà quale cortese città. Ancora l’aria era quella di chi è pronto a perdersi nella notte, perché c’è una festa da qualche parte che ci attende. E l’eleganza discreta dei nostri vestiti era quella adatta per la gioia impalpabile e piena e irripetibile e forse già persa di chi sa di essere finalmente al posto giusto. E il suo braccio si allunga sulle mie spalle. Ed è abbraccio lieve e cortese di gioia, che ancora è tremito. E’ forse per questo che la notte successiva, che però non era ancora il tramonto, sulla soglia di casa, prima che andasse via, gli ho regalato quel gattino… Un gattino con l’aiuolina in testa, tutta fiorita di non-ti-scordar-di-me gialli e rossi, che solo nei sogni esistono… Avete presente, quei dolcissimi gattini con l’aiuolina in testa…? Forse è per questo, per il regalo del gattino, che quella notte solo da me è venuto….
Fantasmi…
La prima notte che è comparso era sera. Era venuto a prendermi in abito quasi da sera. Nero e di eleganza discreta. Anch’io lo ero. Intendo vestita con un abito quasi da sera, e di discreta eleganza. Indossavo un tubino, nero. Modello Audrey Hepburn, in Colazione da Tiffany, per intenderci. O quasi. E lui era bello, e giovane e magro. Come quando, un quarto di secolo fa o forse più, era bello, e giovane e magro. E bello forse lo è sempre rimasto. Sorrideva gentile, e insieme ci siamo incamminati verso la festa… Ne ero veramente appagata e felice. E in quelle stesse ore è andato a trovare quell’altro nostro amico. Sì, era proprio quella medesima notte: indossava lo stesso abito nero. Ed era bello, giovane e magro. Come quando, un quarto di secolo fa o forse più, era bello, giovane e magro. Anche allora, un quarto di secolo fa, vestiva spesso di nera, discreta eleganza…
E un altro giorno è andato…
Arriva in libreria un nuovo libro di Guccini, “IL dizionario delle cose perdute” ( acc… e c’era proprio bisogno che rinvangasse…?) e sul libro arriva questo pensiero di Daniela Morandini. Come dire, Bologna e dintorni…
“Se c’è una cosa che si può rimproverare a Guccini, è di aver fatto rimpiangere il tempo andato anche a chi, in quegli anni, il tempo non sapeva ancora cosa fosse. “Vedi cara –ammoniva con quella sua erre anarchica -, è difficile spiegare, è difficile capire, se non hai capito già…”. E allora calava lo sconforto. Ora, con il “Dizionario delle cose perdute”, Guccini ricorda ancora. La copertina è potente. E’ uguale, più grande, ad un pacchetto di Nazionali senza filtro, quello verde col veliero: un simbolo quasi come la falce e il martello ( simboli, perché, allora, i loghi non c’erano). Perché “abbiamo fumato di tutto (o quasi tutto, sia chiaro)” – ammette Guccini, e snocciola quell’archeologia di piccole cose che, dalla via Emilia, sarebbe arrivata al West. Come le siringhe di vetro, grosse, con l’ago di ferro, da bollire ogni volta in una scatoletta di alluminio. Poi “ si ricorreva ad una conoscente, ad una vicina di casa che sapeva fare le punture”: Già, era così e faceva male. E i pennini delle elementari dove sono finiti? C’era il “gobbino”, piccolo, nervoso. La “torre”, che ricordava vagamente la Tour Eiffel. La “manina”, a forma, appunto, di mano chiusa, con l’indice puntato, alla quale nessuno associava significati volgari. E il telefono nero, attaccato al muro, in ingresso. E la mamma che, quando voleva fare due chiacchiere, prendeva la sedia. Torna in mente anche quella “pulce“ che speravamo di avere scordato. “Era un gioco da bambine di solito regalatoti da vecchie zie zitelle – ricorda con precisione Guccini-. Consisteva nel far salire un dischetto di plastica sopra l’altro, cliccandolo con una sbarretta oblunga. Una noia mortale. Ma piaceva appunto alle bambine, le quali oggi, da ex bambine, si illuminano ancora d’immenso al ricordo e fanno – ah sì, la pulce, clic- e torna in me il malcelato maschilismo di allora”. E che dire poi del dentifricio? Per il tubetto di una volta, che si arrotolava come quello di un pittore, sarebbe anche disposto a pagare qualcosa in più. Guccini scrive e ride. E ridiamo anche noi. E, questa volta, ci si rende conto, veramente, che un altro giorno è andato.”
Un albero caduto
Forse anche per quell’albero mi ero convinta a venire ad abitare in questa casa. Un grande alloro… altissimo, che saliva con i rami in alto, più in alto del limite delle mie finestre. E grondava di foglie e di nidi, e la primavera espodeva in grappoli di infiorescenze, gialle e bianche… E tutto sembrava un immenso giardino, perché l’albero era talmente grande e alto e folto, da nascondere alla vista l’alto caseggiato, che appena si intravedeva, lì dietro, oltre la sua chioma… Poi, qualche anno fa, alcuni suoi rami hanno iniziato ad ammalarsi. Con le foglie affollate di minuscole conchigliette, che a staccarle erano minuscole gocce di sangue, che proprio sembravano succhiate dalla linfa della pianta. Ed è venuto un giardinere e ha spogliato l’alloro di tutti, ma proprio tutti i suoi rami. Quasi sembrava ne sarebbe morto. Ma piano piano, sono nate nuove foglie e nuovi rami, sono passate altre stagioni e l’alloro ha ripreso forza e bellezza, e ancora si è popolato di nidi, e la sua voce è diventata canto di uccelli. Ma giusto quando era tornato ad essere più alto delle mie finestre, qualcuno forse ha deciso che andava sfoltito… e ancora una mattina affacciandomi il mio sguardo è caduto nel vuoto di rami mozzati… e solo, di fronte, l’intonaco slabbrato del triste retro di caseggiati e il reticolato di finestre squadrate come gabbie… Giù in basso, l’alloro di nuovo amputato, triste e muto come un funerale… Eppure non si è arreso. (…)
Il cammino di Marcella
“Ci contiamo, manca Marcella, la mia figlia di 8 anni. Sull’asfalto non c’è, capiamo che è stata sbalzata dall’auto, ed è probabilmente là, 28 metri più sotto. Poliziotti, Vigili del Fuoco Croce Rossa e automobilisti di passaggio scendono a cercarla senza trovarla. Dopo trenta minuti dico a voce alta: Se la troviamo vado a Lourdes. Ci vado a piedi..”
Marcella poi è stata trovata. In condizioni, sembrava, disperate… era stato chiesto ai genitori l’autorizzazione, persino, all’espianto degli organi. Ma Marcella, poi ce l’ha fatta, anche se non ha potuto più camminare. E, anni dopo, la mamma di Marcella, Anna Rastello, ha tenuto fede alla promessa. E “Il cammino di Marcella” è il racconto di quel viaggio, a piedi fino a Lourdes. E’ il racconto anche di quei primi terribili momenti, dei primi, difficili tempi, quando, scrive Rastello, “non tutti hanno più camminato con noi”, e non è del viaggio verso Lourdes che parla… C’è chi si è allontanato perché “non riesco a vedere un bambino che soffre”, come ha detto qualche amico… e questo , anche , è molto doloroso. (….)
Lo scatolone delle figurine
Ancora un pensiero per Lucio Dalla. Una riflessione, dopo che Lucia Annunziata, giornalista che conduce un programma televisivo la domenica pomeriggio, dallo scranno del suo studio ha ritenuto di dover violare la riservatezza che Dalla aveva sempre mantenuto sulla sua vita privata. “Scatolone delle figurine”, definisce così la TV Daniela Morandini, che ci manda queste righe, e che di Bologna, e non solo, ci regala questa istantanea…
“Luciodalla –lo si chiamava così, tutto attaccato, era un po’ come le due torri. E’ impossibile pensare a Bologna senza l’Asinelli e la Garisenda. E’ impossibile pensare a Bologna senza quell’uomo, irriverente e garbato, che cantava come un sax e che meriterebbe un posto nell’elogio della bruttezza di Umberto Eco. Luciodalla ha accompagnato un po’ tutti: benpensanti, tanti; uomini d’apparato, molti; compagni, quasi tutti, forse; quelli che stavano con Guccini, in fondo, pochi. Ma nessuno si era mai occupato più di tanto dei suoi fidanzati o delle sue fidanzate. Quando Luciodalla se ne è andato, forse tra i fili di una radio, Bologna, con gli occhi rossi, ancora una volta, è scesa in piazza con il decoro di chi si congeda da un pezzo di se stesso. C’erano tanti telefonini al passare di quella bara, ma nessun compiacimento davanti alle telecamere. Eppure, quel 4 marzo, lo scatolone delle figurine ha voluto sfondare quella porta che Luciodalla aveva preferito tenere chiusa. Ha voluto sbirciare dove a nessuno era importato entrare. Ha dato un altro schiaffo osceno ad un’altra vedova, davanti al suo morto“
Il bambino con le braccia larghe
“Quando hai un fratello matto riconosci qualche spicchio della sua follia nei tuoi comportamenti, così come lui cerca disperatamente la sua normalità nei tuoi. L’unica cosa di realmente, profondamente diverso fra lui e me è sempre stato il volume della sua sofferenza, che forse è l’unico aspetto davvero riconoscibile della follia..”
e di follia parla, “Il bambino con le braccia larghe”, libro edito da Ediesse, e scritto da Carlo Gnetti… che è giornalista, che ha voluto raccontare la storia di Paolo… suo fratello… Quando parliamo di malattie, disabilità, fisiche o mentali, subito pensiamo alla sofferenza dei genitori, quasi mai si pensa ai fratelli… eppure … cosa succede a un fratello quando la malattia irrompe in casa…. Cosa succede, quando ad ammalarsi è un fratello che è anche compagno di giochi, con il quale tante e tante sono le esperienze condivise, in famiglia e non, dall’infanzia alla prima adolescenza, fino a quando la malattia appunto irrompe in casa e i percorsi si dividono. Si dividono ma, Gnetti lo spiega bene, il legame mai si spezza, anzi forse in qualche modo proprio dalla malattia viene cementato se per tutta la vita, ci dice, ha continuato a riconoscere in lui qualcosa di sé e sempre l’uno per l’altro sono stati riferimento certo. Il libro ha un incipit fulminante… “il giorno in cui mi accorsi che Paolo camminava tenendo le braccia larghe, staccate dal corpo, rimasi più che altro sorpreso… non capivo se era un nuovo gioco o qualcosa di più misterioso…” e inizia un percorso nel buio, … anche perché all’inizio la malattia arriva di soppiatto, non è subito riconoscibile, diventa altalena fra malattia e normalità, malattia e normalità…e tanto, tanto dolore… (…)