Dalla riva dell’amore la storia di Marco, bambino disabile, come la sua mamma, Elena Skall, la racconta ne “La scala dei Miracoli”, dell’editrice Alieno. Il racconto di due vite intrecciate, la sua e quella del bambino che ha adottato. Marco, le spiega una dottoressa, è affetto da tetraplegia distonica… mamma Elena immgina che la dottoressa mentre le comunica la diagnosi, si chieda “ma chi glie lo ha fatto fare?”. Chi glie lo ha fatto fare? Ma lei, assicura, questa domanda non se l’è mai fatta. Marco è nato alla sua vita nel momento in cui l’ha incontrato, così, normalmente, come normalmente c’è chi partorisce. E da subito ha cercato di restituirlo alla vita. Finché un giorno … “per la prima volta si sentiva davvero importante per qualcuno. Così le scoperte furono tutte sue: scoprì di poter giocare , di poter rivivere, con il mio aiuto, le storie meravigliose della sua fantasia che fino a quel giorno erano state solo pensieri sfuggenti. Sul lungo tavolo della cucina orsi e cavalli si rincorrevano, nascevano case, fiori giardini, volavano aerei in un cielo di nuvole. Tutto per Marco, anzi oe rnoi due insieme. Era stupendo…” E poi un giorno legge nei suoi occhi la parola Mamma. E’ una delle pagine più belle… Una storia per capire che il rapporto madre-figlio nasce nel momento in cui ci si riconosce e questo, per chiunque, può avvenire in un qualsiasi momento della vita. E non c’è bisogno di un parto per la nascita di un patto di sangue…
Maree…
Piazze in movimento…
Passando, domenica scorsa, qui dietro casa, a piazza San Giovanni. Sorpresi da una sorta di assemblea, sul lato opposto della Basilica, ai piedi della statua di san Francesco. Giovani, soprattutto giovani seduti in terra ad ascoltare interventi. Che parlavano, di precariato, di nonviolenza, di diritto alla casa, di diritti… Colpiva, il tono quieto, dei dialoghi intrecciati, sottolineati non da applausi o slogan, ma da un lieve movimento in aria delle mani. Un plauso silenzioso, come frullare d’ali d’uccello. Interventi pacati, ma decisi e lucidi, per quella che poi scopri essere solo l’avvio di un’assemblea permanente che già si svolge, qua e là a brani, nelle piazze di altri quartieri, di altre città. Per elaborare poi, è ‘impegno, proposte concrete. L’inizio di un percorso di democrazia reale? Sembra proprio di sì, e c’è da esserne contenti. A partire da questo inizio di pacifica occupazione, e creazione, di spazio pubblico. Per riprendersi, insieme agli spazi cittadini, un diritto di parola, che sia da ponte al diritto al fare, per ribaltare un sistema in agonia… Già la chiamano Italian revolution... Andate a vedere, fermatevi ad ascoltare… C’è da esserne contenti, e ne sarà stato ben contento anche San Francesco, sotto le cui braccia levate, quasi a protezione e benedizione, si è svolta l’assemblea… San Francesco, sceso anche lui in piazza, con la sua rivoluzione, a chiedere di essere ascoltato… E per chi voglia saperne di più, ed essere aggiornato sugli appuntamenti, intanto “italianrevolution-roma.blogspot.com”.
Contabilità
Lo rende noto l’osservatorio permanente sulle morti in carcere. L’ennesimo suicidio nel supercarcere di Maiano di Spoleto. Aveva 53 anni. Era di Vibo Valentia. Stava scontando l’ergastolo. Si è impiccato con un lenzuolo nella sua cella. Non c’è stato nulla da fare, si comunica, perché la morte è sopraggiunta quasi istantaneamente. Certo, ma chissà che qualcosa forse non era possibile fare prima, molto prima… prima che il suo desiderio diventasse davvero solo desiderio di morte. Istantanea. Forse troppo frettolosa, ma nella ricerca fatta su internet, non ho trovato il nome del suicida. Consegnato, anche così, a un destino di morte. Quello di essere sempre e soltanto un “Uomo Ombra”.
E si aggiorna la contabilità dei morti. Dall’inizio dell’anno 26 il numero dei suicidi nei centri di detenzione italiani. 71 il totale dei detenuti morti. Buon fine settimana a tutti.
Napoli, un pensiero…
Dopo i risultati elettorali. Un pensiero a Napoli… questa sera… come un nuovo Capodanno, che ci sorprende, come un’esplosione di fuochi. Fino a ieri, solo desiderio, da sussurrare, quasi, a voce smorzata. Fino a ieri, da comprimere dentro, non osando, fin quasi a sentir male…
La favola di Duck
“In un tempo non troppo lontano…., in un paese Qualunque viveva una mamma con la sua famiglia. La donna aveva un figlio di nome Pepe, che amava tanto e stava per dargli un bel fratellino. Era una mamma felice perché vedeva crescere ogni giorno di più il suo pancione. Il tempo passava e tutto sembrava procedere per il meglio. Si avvicinava il momento di dare alla luce il piccolo Duck”…. Duck nasce, ma ben presto di capisce che qualcosa non va… e la sua storia, la vita di un bambino con una malattia dal parolone difficile, tetra paresi spastica, diventa la “Favola di Duck”, edita da Arkadia, scritta da Bruno Furcas e Andrea Cossu. Questa fiaba , scritta per bambini, in realtà nasce da un altro libro: “Diversamente come te”, nato dall’amicizia di Bruno Furcas con Andrea Cossu, un giovane tetraplegico, che con molto coraggio ha raccontato la sua vita, il suo percorso… e dagli incontri fatti con le scuole per parlare di “Diversamente come te”, è nata l’idea di “tradurre” la storia in un linguaggio adatto ai più piccoli. La favola di Duck, dunque. Le immagini e i protagonisti sono quelli delle fiabe, lo stregone Tetrapà, che rappresenta la malattia, sua moglie la strega Ignoranza che, ci ricorda Furcas, incontriamo un po’ dappertutto, fra la gente, per la strada, nelle scuole, persino… E poi c’è una serie di spiritelli buoni che sempre accompagnano il piccolo Dusck, fatina Speranza, spiritello Sorriso, perché il sorriso, dice Furcas, è sempre sul volto di Andrea. (…)
La barca della Sirena
Questa mattina Daniela è arrivata in ritardo. Ma non poteva far altro. Che finire di scrivere per noi quello che la Sirena stanotte le ha raccontato. Un’altra storia, dunque, sussurrata dal mare…
“La Sirena delle Rocce, si sa, non sapeva nuotare. Da quando aveva perso le ali, aveva paura dell’acqua. Viveva sullo scoglio più alto, anche se le piaceva tanto quel blu che faceva rumore. Una sera scese in spiaggia, e vide che le onde avevano lasciato qualcosa di nuovo. Un regalo per lei? Era il relitto di un gozzo. I marinai, per ascoltare le sue compagne cantare, si erano avvicinati troppo alla riva, e avevano fatto naufragio. Se l’avesse aggiustato, quante cose avrebbe potuto fare! Allora raccolse i legni portati dalle onde e li sistemò sulla chiglia, con il corallo la dipinse di rosa e con il mare vi disegnò una riga celeste. La sirena che non sapeva nuotare aveva una barca! La spinse in acqua e quando fu un po’ al largo, si sdraiò sulla prua. Stava per addormentarsi quando, all’improvviso, mille braccia l’afferrarono per i capelli trascinandola sott’acqua. Era un Polpo: più che un polpo era una piovra! “Sei matto? Lasciami! Affogo! –urlava la Sirena. Il Polpo la rimise sulla barca senza parole: non aveva mai visto mai visto una sirena che non sapeva nuotare! Allora cominciò a remare con forza. “Vedi laggiù?” cercava di farle vedere, mentre lei tossiva e vomitava acqua salata. “Dove? Chi? Non vedo niente” brontolava strizzando gli occhi gonfi. “Laggiù (…)
La panchina
Andando e stando. Andando lontano dalla propria terra, attraversando altre terre e poi il mare. Stando, quindi. Per chiedersi infine, dopo anni e anni lontano da casa, se abbia avuto un senso il cammino di questo emigrare. Kilap Gueye, partito dal Senegal e approdato su quest’altra riva, in Sardegna, si interroga, seduto sulla sua panchina, in un angolo appartato, magari lontano dal rumore delle automobili. Una panchina, sì proprio quelle che qui e là dalle nostre parti ogni tanto qualcuno pensa di far scomparire… Luogo dello spazio pubblico che sa essere privatissimo, luogo sicuro per pregare e pensare in pace. La panchina, dunque, titolo e luogo di questo libro che ha la scrittura, e la voce, di un diario sommesso. Che l’editore Aipsa pubblica nella collana D’oltremare. Un libricino quasi sussurrato, di appunti, del viaggio che è stato e dello stare che è. Passato e presente si intrecciano per comporre la storia di Kilap, nato a Thies, e che dopo gli studi universitari lascia il suo paese perché, come si legge nella controcopertina, “ha poche speranze di trovare un lavoro che gli consenta di realizzare il suo più grande sogno: contribuire a sradicare la povertà in Africa”. Ma l’Italia che trova non è quella che aveva sognato. Lontana, lontanissima, da quella vista alla tivvù. La tivvù, questo grande imbroglio… E l’Italia diventa una spiaggia, da percorrere, avanti e indietro, avanti e indietro, per cercare di vendere qualcosa a qualcuno, e, appena, sopravvivere. E che senso hanno avuto i rischi e i pericoli corsi per arrivare fin qui, che senso hanno la tristezza e la solitudine… Un diario davvero fuori dal comune, questo di Kilap Gueye. Un distillato di pensieri e sentimenti. Di immagini, che corrono, senza ordine apparente, da un luogo all’altro, da un tempo all’altro. Covati sulla sua panchina. E lo vediamo benissimo, questo giovane uomo, il colore bruciato della sua terra, il borsone accanto, seduto a interrogarsi. A stupirsi ad esempio ( e vergognarsi un pò), di quella strana gente che siamo noi, che senza vergognarsi si espone al sole seminuda. Ah, il corpo… quale rispetto, quale pudore per il nostro povero corpo? Ed è forse la prima cosa che lo colpisce, e ferisce, del suo soggiorno italiano. Ma ci pensiamo mai? Ci abbiamo mai pensato? (…)
Storia di Maria…
Storia di Maria, che da due giorni non vive più. Nel ricordo, triste e dolorante, di Gabriella La Rovere.
Pavane for a dead princess è uno splendido brano composto da Maurice Ravel nel 1899. Da quando ero piccola, l’ho sempre associato ad uno stato malinconico e mi è capitato spesso di ascoltarlo seduta sul pavimento con le braccia a circondare le gambe. E’ la prima cosa che mi è venuta in mente quando ho saputo della morte di Maria. Una principessa, è vero! Ognuno di noi lo è, se con questo termine intendiamo affermare il diritto ad essere trattati con dignità, ad essere rispettati in quanto esseri umani! Sembra strano che nel terzo millennio, dopo una serie di battaglie ideologiche e sociali che hanno portato a un’umanizzazione degli ospedali psichiatrici, si debba ancora scoprire che per alcuni medici niente è cambiato. Sistemi di contenzione, abbandono del malato, terapie sconsiderate al solo scopo di mantenere buono il paziente, così non rompe le scatole; invece, seppur con ritardo mentale, il malato comunica il suo disagio, il dolore, la paura, la solitudine, la disperazione. Maria non ce l’ha fatta nonostante per 18 giorni sia stata circondata dall’amore e dal rispetto di tutti noi, anche di quelli che la società confina all’ultimo gradino: le persone con disabilità, quelle che un ministro della nostra Repubblica ha considerato come spesa improduttiva, zavorra sociale. Ieri ho avuto la fortuna di assistere a un esempio di vera com-passione. Mentre Maria veniva rimboccata per la cena, attorno a lei altri ragazzi con disabilità cantavano delle canzoni per rallegrarla e stimolarla a mangiare. Era tranquilla, ma il viso troppo scarno e i suoi occhi vuoti. Ascoltava, ma era sfinita, triste. Tra due settimane sarebbe finito questo paradiso. E dopo? Chissà…Forse sarebbe potuta tornare da dove era venuta, cioè dall’inferno. Maria lo sapeva, lo sentiva e non ha voluto più vivere. Il suo cuore ha smesso di battere subito dopo la cena festosa con Roberta, Marzio, Benedetta. Resta una grande tristezza per non essere riusciti a riportarla alla vita, a salvarla dall’indifferenza di chi si definisce normale. (…)
Il gatto che aveva perso la coda
C’era una volta un gatto. Un piccolo gatto tigrato che aveva perso la coda. “Senza coda non posso miagolare al chiaro di luna. Non posso arrabbiarmi e neppure innamorarmi” disse. “Andrò al negozio dove vendono code nuove”... Inizia così “Il gatto che aveva perso la coda”, un delizioso libricino edito da Carthusia, nato da un’idea di due tecnici di radioterapia pediatrica dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano, Gabriele Carabelli e Sara Frasca… che si sono detti: perché non aiutare i bambini in cura, raccontando loro il percorso della terapia con una fiaba? A scriverla ci ha pensato Emanuela Nava, che ha saputo tradurre nel linguaggio delle fiabe, il suggerimento di Carabelli e Frasca. Andando, ovviamente, innanzitutto a vedere i bambini, quei piccoli ammalati di tumore al cervello che, racconta, e ancora la voce emoziona, serissimi si avviano nella stanzetta della terapia, indossano una sorta di maschera-casco, che e’ stato fatto per ciascuno su misura, lo infilano sulla testa e si stendono sul lettino dove verranno “irradiati”… Forse nessuno sa che quel caso, ha due bulloni con i quali la testa del bambino viene fissata, immobile sul lettino… Attraverso un interfono, spiega Nava, le mamme parlano ai loro bambini, ma alcuni hanno tanta paura, alcuni, specie le prime volte, devono essere sedati… Ecco, sembra che questa fiaba abbia aiutato alcuni bambini a non aver paura e non e’ stato necessario sedarli… (…)
silenzi
“Forse scrivo semplicemente perche’ non vedo modo migliore di tacere” . Ilse Aichinger. Paradossi, di parole ribelli. Cosi’, per pensarci un po’ su….