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    Dramaturg

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    Studi di Estetica, rivista semestrale fondata da Luciano Anceschi (Clueb editore, Bologna) dedica gli ultimi due numeri a Luigi Gozzi. Daniela Morandini, sua amica e allieva, ne scrive così.

    Gli ultimi due volumi di questa rivista così bella, quasi d’altri tempi, ricompongono e scompongono la poetica di Luigi Gozzi, uno dei drammaturghi più rigorosi del teatro di ricerca della fine del ‘900. A due anni dalla morte, la poetica di Gozzi scorre attraverso le sue regie e i suoi scritti: Jenet, Artaud e Jarry. E, sorpresa, attraverso una pièce inedita: Diderot. Ci si ritrova così, ancora, dentro al Teatro delle Moline, quella scatola nera con due entrate/uscite in fondo al palcoscenico, nel centro di Bologna. In questo spazio, Gozzi ha lavorato per più di trent’anni, sulle parole della commedia, sulla fisicità dell’attore, sulla trasmissione del sapere. Qui sono cresciute almeno due generazioni di persone. -Due destini gemellati- dice di lui Renato Barilli raccontando di un viaggio fatto insieme nella Parigi esistenzialista degli anni ’50. Ricorda di quando, ancora ragazzi, incontrarono quel “gran pescatore di uomini” che era Luciano Anceschi. Ripercorre l’esperienza del Gruppo 63, che tanto ha dato alla sperimentazione della forma.

    il trenino, 13

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    L’ultimo giusto l’altro ieri. Al ritorno nell’ultimo tratto, nel tardo pomeriggio, quando alla fermata appena precedente l’arrivo al capolinea, i vagoni si affollano all’inverosimile. La scena di sempre. Visi stanchi, turisti stupefatti, volti che sudano, qualcuno che ride, qualcuno che borbotta, qualcuno che già dorme. E ressa alle porte, gomiti nei fianchi, piedi che calpestano, che è sempre il rischio più grande per chi non trova da sedere. Salgono un uomo e una donna. Lei piuttosto truccata, lui di un grigio gentile. Forse amici, forse il sospetto di un garbato corteggiamento, come accade fra persone di una certa età. Stretti in un angolo, sul volto di lei si disegna una smorfia di inquietudine. Lui continua a sorridere, mentre in qualche modo fa scudo con il suo corpo prosciugato al corpo più corposo di lei. La rassicura. Basta che stai attenta ai piedi, le dice, attenta a che non ti calpestino. Basta che stiamo fermi in quest’angolo. Che fra non molto si riscende. Sarà breve, sarà breve. E poi, come recitando un versetto, bisogna avere fiducia nel futuro, dice, bisogna avere pazienza nel presente, dice. Gocce di saggezza, come un brillare inatteso di lucciole, nel buio di questi tempi amari. Quel che basta, e più lieve mi appresto a un altro ritorno. (continua)

    il trenino, 12

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    … Poi ci sono i musulmani del venerdì. I vagoni si riempiono di voci e abiti e colori di un altro mondo, che poi è già anche il nostro. Il tempo di tre fermate. Scendono tutti alla stazione della Moschea. Due settimane fa hanno affollato i vagoni all’inverosimile. Tanto che ho percepito fra l’altra gente qualche timore. Qualcuno ha cercato di spiegare che non c’era da avere paura di nulla, che forse andavano a pregare. Ma come mai tanti, quest’oggi, ha chiesto qualcuno altro. E’ seguito un confuso dibattito. C’è stato un consulto. Nessuno che avesse una risposta certa. Alla fine un uomo, fino ad allora assorto nella lettura di un giornale, ha detto che si trattava della fine del Ramadan. E tutti si sono acquietati. Questione di immigrati… E che volete, sono un trenino di una linea che porta in periferia, mica un tassì che fa servizio per signore fra i Parioli e Piazza di Spagna. E ora che ci penso devo dire che mi annoierei. Fra i Parioli e Piazza di Spagna, ovviamente intendo. Sarei più povero, sì. Più povero di tutti i preziosi appunti sulla vita che in questi anni ho registrato. L’ultimo giusto l’altro ieri… (continua)

    il trenino, 11

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    …Comunque, anche solo a guardarsi qui intorno, non c’è davvero il rischio di annoiarsi. Ci deve essere un centro di salute mentale, da queste parti. Dietro la collina, credo di avere sentito. Uno di quei centri, diurni, li chiamano, dove, mi sembra di capire, si vada qualche ora, per un trattamento e via. Bèh, un giorno quei malati devono essere usciti tutti alla stessa ora. Perché alla fermata a metà strada, quella in linea d’aria sotto la collina, è salito un gruppetto di persone dall’aria davvero strana. Educati e composti, per carità. Ma di una compostezza compressa, che per un attimo ho temuto potesse, come dire, uscire dai binari. Gli sguardi. Qualcuno fin troppo mobile. Qualcun altro, fin troppo fermo. Un giovane uomo, magro magro, alto alto e tutto vestito di nero, con gli occhi fissi a scavare nel vuoto.

    il trenino, 10 bis

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    … I bambini. Hanno in sè, in ogni istante, la forza della vita. A dispetto di tutto e di tutti. Mi vengono in mente delle foto, da una rivista che sfogliavo in questi giorni. Un accampamento di rom alla periferia di Belgrado. Sotto un ponte, sbarrato alla luce, accanto a cumuli di rifiuti. Dalla miseria più nera, spuntano bambini, a fare piroette. Come e quando ho modo di sfogliare riviste? Qualche minuto, prima di addormentarmi, la sera. Anche se il destino mi ha costretto su quest’unico binario., non vedo perché dovrei perdere curiosità per le cose del mondo. Comunque… ( continua)

    il trenino, 10

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    Vi sembrero’ monotono, ma ho ancora una storia di una coppia d’uccelli senza piu’ ali. Non che statisticamente siano piu’ numerosi degli altri viaggiatori. La verita’ e’ che in qualche modo li prediligo. Provo per loro una certa tenerezza. Che e’ la stessa che ho per me. Come loro, per guadagnarmi la vita, sempre in marcia, avanti e indietro, avanti e indietro. Senza scampo. Anche se il loro cammino non sempre e’ costretto, come il mio, su un unico binario. E per questo a volte un po’ li invidio. Ma so, che quando il loro andare si fermera’, come per me, sara’ per sempre. Dunque, sulla strada del ritorno, verso sera. Lei e’ una giovane donna. Forse trent’anni. Forse molti di meno. La vita, sul volto delle zingare, lascia presto i suoi segni piu’ profondi. Lui e’ il suo bambino. E’ vivacissimo. Ha grandi occhi neri. Smisurati, mi sembrano, mentre si guarda intorno monello. Ha una brutta tosse. Ma si muove e saltella e si alza e si risiede con l’energia curiosa dei bambini della sua eta’. Quanti anni ha? Chiede cortese una ragazza seduta li’ accanto. Tre anni, risponde la madre.

    il trenino, 9

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    E non è finita lì. Appena poco più avanti, sulla sinistra, invece. Nel tratto dove il binario per un po’ si allontana dal bordo della consolare. Dove nel disordine crescono rovi e cespugli, e alberi fitti compongono una boscaglia. Avevo notato anche lì già qualche anno fa il tetto di una baracca. Poi col tempo ne sono spuntate altre. Non è facile scovarle. Bisogna saper vedere e io col tempo le ho viste moltiplicarsi. Tradite da pochi segni: qualche panno messo ad asciugare su un ramo, il fumo di un fornello, una sedia e l’angolo d’un tavolo all’aperto quando l’inverno non è stato così cattivo. Ma passando, proprio quest’anno, una mattina che la primavera non era ancora arrivata, esattamente in quel punto, ho percepito uno strano vuoto. Approfitto di un segnale confuso per rallentare la corsa, e vedo. E’ un largo tratto di terra nuda. Dove prima erano cespugli, rovi e alberi. Qua e là, fra brevi mucchi di stracci, alcuni oggetti di vita domestica. Dell’illusione di una vita domestica che rovi e cespugli e alberi tenevano al riparo e che adesso è stata spazzata via…

    il trenino, 8

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    … Poco prima che il binario salga sul ponte sul fiume. Sulla destra, basta appena allungare lo sguardo. Sulla distesa di macchine lasciate ad arrugginire. In mucchi accatastate le une sulle altre, e portiere squarciate, ferri, tubi contorti. Insomma, il campo dei rottami. Cosa non va? Da qualche parte i rottami si devono pur buttare, direte. Si, certo, forse. Ma quello che non vorrei vedere e’ il tratto dove i tubi diventano lamiere di tetti. E i rottami di ferro trasmutano in casupole. Tutte accalcate l’una sull’altra, l’una che spinge l’altra. E insieme si spingono fino alla sponda del fiume. Che ogni volta mi chiedo com’e’ che le ultime della fila non caschino nell’acqua. E quando d’inverno sale la piena tremo, che il fiume non le porti via. Cosa che finora, almeno su quest’ansa del fiume, non e’ ancora accaduta. Ma temo che prima o poi possa accadere. Allora nulla potra’ la fila di cancelletti sbilenchi, sospesi sull’argine, che qualcuno ha messo a segnare confini d’aria. E non e’ finita li’… (continua)

    due novembre…

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    E comunque, oggi e’ il giorno dei morti… Un pensiero a quei morti di cui nessuno parla. Ancora, dal carcere di Spoleto, una lettera di Carmelo Musumeci, che, parlando di macelleria carceraria, premette un pensiero di Catullo: “Amami quando lo merito di meno, perche’ sara’ quando ne ho piu’ bisogno“… buona lettura.

    “Dall’inizio dell’anno i suicidi in carcere sono 55 e nessuno ne parla. Molte persone aldila’ del muro di cinta si domandano perche’ molti detenuti si tolgano la vita. La verita’ e’ che la morte in carcere e’ l’unica cosa che puo’ portare un po’ di speranza, amore sociale e felicita’, perche’ quando ti togli la vita hai il vantaggio di smettere di soffrire. Una volta il carcere era solo una discarica sociale, ora e’ diventato anche un cimitero sociale. E da un po’ di anni a questa parte la cosa piu’ difficile in carcere non e’ piu’ morire, ma vivere.

    il trenino, 7

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    Sì, negli ultimi anni ho affinato molto l’udito, ascolto, ascolto. E osservo. Per frugare nella vita della gente. Che non è cosa molto educata. Ma non posso più fare a meno di guardare dentro i miei vagoni. Anche perché troppo spesso è meglio, credetemi, che guardare fuori. Perché ci sono tratti lungo i quali vorrei chiudere gli occhi  per non vedere. Che non è cosa prudente, ma che pure, a volte, di nascosto, faccio. Quando arrivo a metà percorso, ad esempio… (continua)