A proposito di parole. A proposito della richiesta di 16 anni e mezzo di reclusione per l’amministratore delegato della Thyssen, per omicidio volontario. Per i sette morti nel terribile rogo di tre anni fa. Non era mai stato contestato a un imprenditore l’omicidio per la morte sul lavoro di un dipendente. Accusa di omicidio, dunque, per aver rinunciato, nel caso della Thyssen, a investire nella sicurezza antincendio, accettando quindi il rischio di un disastro. “Accettandolo” per gli operai, naturalmente… Una richiesta, questa, che sembra un po’ rimettere le parole giuste al posto giusto. Un tempo ( anni Sessanta… Settanta?) quando si moriva sul lavoro si parlava di omicidi del lavoro, per indicare con chiarezza la responsabilità dei sistemi di produzione, per mancanza di misure di sicurezza e quant’altro. Poi, a poco a poco, quel termine è andato scolorendo, e omicidi del lavoro sono diventati omicidi bianchi, facendo così sbiadire anche la coscienza di responsabilità possibili. E questa definizione un po’ più “pulita”, decisamente più “politicamente corretta”, mi ha sempre fatto pensare alla lupara bianca, l’omicidio di mafia eseguito in maniera che non rimanga traccia del morto e quindi del delitto. Far scomparire la vittima sul lavoro è sempre risultato un pò più difficile, più semplice è stato ammorbidire, fino ad annullarla, l’idea di responsabilità penali, della fisicità possibile di responsabili. Così, un altro piccolo passo ancora e come per magia è sparito anche il termine omicidio. E si è parlato solo di morti, parola terribile anch’essa, ma che precipita in un vuoto assoluto di responsabilità. O meglio nell’irresponsabilità, come insinuando l’idea che sul lavoro, si sa, si può anche morire. Morti, dunque, rimaste bianche, per giunta… a renderle quasi più lievi, accettabili, persino. Chissà che queste parole, omicidio e volontario, pronunciate in un’aula di Tribunale, riescano a rendere un pò meno distratto e pigro anche il nostro parlare quotidiano.
Barche volanti
Dalla riva lontana dell’isola di Lampedusa, arrivano come fogli portati dal vento, le immagini di un calendario. Che l’anno che verrà vuole salutare con danza di barche volanti. Perché, dicono, lì il mare è così limpido che le barche appaiono come sospese nell’aria. Perché, dicono, le isole dell’arcipelago delle Pelagie possono ben rappresentare le isole del sogno. Per chi arriva dalla riva ancora più a sud e per chi arriva dal nord. Migranti e turisti insieme, insomma. Ne sembrano convinti gli amministratori dell’isola. D’altra parte, ricordano, “o dolce musa, portami a Lampedusa”, cantano i Sud Sound System… row row to Lampedusa we go go go for a better life… . Un canto che forse ancora, sommesse, bisbigliano quelle altre navi che, portate dal mare, ora riposano coi loro sogni distrutti…. Sognando che tutte, ma proprio tutte un giorno possano riprendere il volo. Noi ce lo auguriamo, e lo auguriamo a tutti, con questo anticipo di sogno, per l’anno che verrà..
(foto di Daniela Morandini)
Linguaggio, linguaggi…
A proposito di parole. Di imposture, piuttosto, che, ripetute fino all’ossessione, finiscono col divenire vere… Ascoltando questa mattina di “mani in tasca agli italiani“. Messe o non messe, quelle mani, in tasca agli italiani, ma non è questo quello che importa. Quello che importa è che il legittimo e civile rapporto fra uno Stato che chiede il pagamento di tasse e il cittadino che quelle tasse paga perché lo Stato ( così, banalizzando) bene o male funzioni, è diventato luogo di un disprezzo reciproco. Con quelle cinque paroline che alludono a gesto da ladro, che lo Stato sempre e comunque compirebbe, chiedendo il pagamento delle tasse. Con quelle cinque paroline, che trasformano ciascuno di noi in cittadini in fuga, orgogliosamente, arrogantemente, dai doveri di cittadinanza… ormai tutti legittimati a difendersi in ogni modo da quelle “mani” che vogliono entrare nelle nostre tasche, con miserabile gesto da ladruncolo metropolitano… Parole che sono veleno, iniettato a poco a poco nelle vene. Veleno che già invade il nostro corpo. Arriva, ce ne siamo accorti?, a inondare il cervello, che per un po’ annaspa, poi, affogandovi, si spegne …
8 dicembre
Passando, lungo strade all’improvviso affollate. Prove, forse, della festa che verrà. E piombare alle spalle di un breve muro di folla, che sbarra il passaggio ai bordi della strada, per scoprire che è lì ad aspettare che il Papa compia il percorso che sempre compie, ogni anno, in questo giorno, a quest’ora, dalla sua basilica alla piazza dove in alto, in cima in cima alla colonna, sta la Madonna dell’Immacolata. E aspettare insieme a quella gente di vederlo infine passare. Il Papa, vestito della mantella rossa, in piedi sulla macchina bianca, blindato nello scudo di vetro che lo tiene al riparo… Sorprendersi di scoprirlo minuto, e curvo e lontano, per quanto lì a due passi, nella sua scatola di vetro blindato. Sentire, qualche commento distratto, uno sparuto battito di mani, così sparuto e frettoloso che quasi gela il cuore. E poi la folla già si scioglie, per subito sciamare inseguendo il suo vagare. In attesa del Natale che verrà.
Pensiero d’inizio dicembre
“Sciagura a te / Paese dove uno schiavo è re / E dove i capi mangiano il domani // Te beato /Paese dove regna / Nobile prole // E dove i capi mangiano quando è ora / Per avere forza e non per crapulare” .
Ancora il grido di Qohélet, per un pensiero d’inizio di dicembre. Pensando agli scranni vuoti di un Parlamento chiuso e alla sciagura di capi che il domani, forse, l’hanno già mangiato… Buon dicembre a tutti.
Per salutare novembre
Per salutare novembre.
“(…) Tutto quello che la tua mano / Sarà capace di fare / Fallo finché ne hai forza /// Perché non c’è azione /// Non c’è invenzione /// Non c’è pensiero /// Non c’è sapere /// Nella Terra dei Morti dove andrai ”
Un respiro di Qohélet. Pensando a questo mese che va via, insieme a Mario Monicelli, che ha deciso di andarsene a modo suo. Forse, chissà, desiderando di non voler rimanere prigioniero, di membra morte. Dopo aver tanto fatto, inventato, pensato, agito. Dopo aver ancora, finché ha potuto, fino all’ultimo incitato. Avrà gradito, immagino, lo striscione degli studenti, questa mattina a manifestare nelle strade. “Ciao Mario” diceva. “La faremo ‘sta rivoluzione…”
Linguaggi…
Leggendo, il prezioso libretto di Zagrebelsky sulla lingua del nostro presente. Quasi un notebook dove è appuntato cosa è accaduto in questi ultimi anni al nostro parlare. Alle parole, deformate e usurpate nei modi di un linguaggio pubblico che è diventato, ahinoi, anche privato. Sintomo “di una malattia degenerativa delle vita pubblica, che si esprime in un linguaggio stereotipato e kitsch, proprio per questo largamente diffuso e accolto”, come si legge in bella evidenza sulla copertina. Leggendo, di modi e metodi che sono riusciti a far diventare parte di un lessico dell’ostilità e delle contrapposizioni persino una parola che dovrebbe rappresentare tutti e significare per noi il tutto, la parola italiani. Leggendo, di frasi, parole, ripetute e ascoltate fino all’ossessione, usate dalla politica e amplificate dai mezzi di comunicazione, fino a tessere una rete di significati che, per quanto impropri o forse proprio per questo, ci imprigionano, e sembrano dare consistenza di realtà a cose che in realtà non sono. E rendersi conto, a pensarci bene, di esserci dentro fino al collo. Anch’io, che sempre brontolo sull’uso delle parole, e attenti a questo e attenti a quello, e la precisione, e le parole sono pietre… Mi torna in mente il mio piccolo apporto, come operatore dell’informazione, a questa lingua falsata. Ecco, confesso: qualche anno fa o qualcosa di più, rivedendo un titolo per il telegiornale (il nostro telegiornale di Stato della Tv di Stato ). Nel testo c’è la parola premier (cominciava allora a comparire qua e là, all’inizio quasi di soppiatto, come qualcuno che arrivi con finta distrazione fischiettando, a far finta di nulla…). La parola è sbagliata, sollevo la questione da maestrina dalla penna rossa. Il premierato in Italia, almeno per ora, non esiste, dico. Si dice Presidente del Consiglio, dico. “Troppo lungo” taglia corto il superiore di turno. “Non entra nella riga. Si scrive premier“, ha concluso definitivo. Non mi occupo più di titoli. Da allora, non so se mai più qualcuno si sia posto il problema… Quel che è certo è che ormai in un paese che premierato non ha, sembra non esista alternativa a definire premier chi, leggi alla mano, premier non è, e chissà se mai lo sarà.
Baccanti…

Donne…..
Tragicamente, nei versi di Euripide…
“E sui loro capelli portavano fuoco, / ma non le bruciava. / Gli uomini accecati dall’ira / per il saccheggio delle baccanti correvano alle armi. / E allora, mio signore, fu uno spettacolo terribile a vedersi: / agli uomini la punta delle lance non si bagnava di sangue; / quelle, invece lanciavano i tirsi, / li ferirono e li misero in fuga, gli uomini, /e loro erano donne!”
foto di Daniela Morandini
Pensiero di metà novembre
Ascoltando il rumore della pioggia, che non fa che battere, e battere, e battere…. forse per non pensare a quanto e quanti fuori annaspano nell’acqua e nel fango… riemerso chissà da dove, così ripensando a le dame, i cavalier, l’armi, gli amori… forse sognando, di un volo fin sulla luna, a raccattare senni perduti…
il trenino, 14
Oggi è finalmente domenica. Giorno di tutto riposo. Anche un po’ triste, però. E’ il giorno delle vedove. Si riconoscono subito. Salgono, abbracciate a larghi mazzi di fiori. Margheritone, bianche e gialle. Calle, a volte. Crisantemi, soprattutto, nei giorni che per tutti è il tempo di festeggiare i morti. Le vedove, i loro morti li vengono a trovare ogni domenica. Al cimitero a pochi passi dal capolinea, che è il più grande della città. Sono, anche loro, una volta alla settimana, una piccola comunità viaggiante. Si accompagnano, a volte, fra amiche. Qualcuna è sola. Domenica scorsa, una di loro è salita a bordo con un gran mazzo di fiori lilla, tirando al guinzaglio un bastardino dal pelo bruno e lungo. Veniamo a portare i fiori a mio marito, ha subito informato la signora che le sedeva di fronte. Veniamo ogni settimana. Vedete? Da quando lui è morto la mia vita è finita. Anche lui, indica il cagnolino, gli era troppo affezionato. E’ morto da più di cinque anni, ma è come se fosse il primo giorno. Anche per lui, vero Billy?