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    il trenino, 6

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    Sentite questa. Un pomeriggio. Due giovani indiani, o forse del Pakistan, non so, ancora non distinguo bene le sfumature delle diverse nazioni. Ma non ha importanza. Due giovani indiani diciamo dunque, sorridono, con il sorriso umido degli orientali, ad una donna a una fermata salita in fretta carica di pacchi. Affaticata? Uno dei due chiede con garbo. Grazie, ma no, non sono affaticata, in fondo e’ appena lunedi’, risponde lei, sorride e si ricompone. A singhiozzo riprende un colloquio di frasi brevi, quelle che nascono dalla curiosita’ cortese, frenata dall’imbarazzo. E voi da dove venite, e la famiglia e bambini, avete bambini? Chiede lei. Uno dei due sorride scontroso, che la donna ancora cerca, l’altro, la famiglia e i figli li ha lasciati nel suo paese, che e’ un nome che non ho ben capito, ma aspetta di tornare a raggiungerli. Dopo un po’ scherzano persino, in quella strana confidenza d’un istante che capita nasca fra chi e’ costretto sullo stesso percorso. I due giovani accennano a progetti, brevi ipotesi di vita. Sospirano dubbiosi. Ma voi avete tutta la vita davanti, dice la donna. Siete cosi’ giovani. Perche’ lei quanti anni ha? …

    Giuseppina, la donna del Sud…

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    pierluigi-tortora-in-giuseppina-una-donna-del-sud3_-foto-marco-ghidelli-300x199.jpgTornando, dunque, dall’incontro con Giuseppina. Giuseppina donna del Sud, portata al teatro Vascello, a Roma, da Pierluigi Tortora. Che entra in scena in silenzio e in silenzio siede al centro del palco. Ma prima, ancora, arriva la sua ombra sbieca, sul fondo, a sinistra. Un profilo appena suggerito dal fazzoletto annodato al collo, come usava una volta, per certe donne di un certo Sud, a una certa età, e da qualche parte si usa ancora… Un lungo attimo di silenzio, come per prendere il respiro, prima di tuffarsi nel racconto. E il miracolo si compie, perché, anche se si scioglie il nodo, e il fazzoletto scivola sulle spalle, anche se a dare voce e pensieri a Giuseppina è lui, sul palco già subito è solo lei. Giuseppina, che è nata, vissuta, invecchiata, nel cuore di Caserta, nel cuore di quella che era, così ci hanno insegnato a scuola, Terra di Lavoro. Che sgrana un rosario di nomi,  i nomi della gente che ha accompagnato le età della sua vita lunga quasi quanto un secolo. Che ora racconta, così, semplicemente, come sanno, o sapevano raccontare, le nonne quando i più piccoli chiedevano. E bastava una sedia, e intorno, la voglia di ascoltare chi tiene che contare, così, semplicemente, perché questo è il fatto, bello e pulito.

    il trenino, 6

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    E’ vero, sono curioso. Osservo, scruto, ascolto. Temo possa capitare un giorno di finire fuori dai binari. Ma la gente! Rimane lo spettacolo più bello del mondo. Chi lo aveva detto? Non ricordo, ma sono d’accordo. Devo confessare che ci sono giorni in cui penso di adorare questa mia gente, che accompagno dal centro alla periferia, e dalla periferia riporto al centro. Ha in sé un sentimento della vita che mi commuove. Che mi fa sorridere, a volte… (continua)

    il trenino, 5

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    E’ solo piu’ tardi che arrivano le filippine. Loro, si’, silenziose e quiete. Non parlano. Scendono tutte alla prima fermata, che e’ ancora citta’. A servire le case dei quartieri alti. Dove non e’ educato arrivare troppo presto. E poi, sempre alla stessa ora, c’e’ un giovane uomo. Accompagnato da uno splendido labrador. Anzi una splendida labrador. E’ femmina. Ho sentito con quanta dolcezza ne sussurrava il nome. Femmina e francese. Che anche in francese risponde ai comandi, perche’ e’ li’, ho capito, che le e’ stato insegnato a essere guida per ciechi. Ha il volto gentile, il giovane uomo. A volte incontra qualcuno con cui affabilmente chiacchiera. Ma piu’ spesso il viaggio e’ un colloquio muto di tocchi d’intesa con la sua attenta guida. Che non sbaglia un tempo, che sempre sa dove condurlo.  Aux animaux! Si’, agli animali. Penso sia la dedica piu’ bella che di un suo libro uno scrittore abbia mai fatto. In questo momento mi sfugge il nome, dell’autore, ma, ricordo bene, l’ho letta. E’ che un po’ comincio ad arruginirmi anch’io… (continua)

    il trenino, 4

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    Ho notato, a quell’ora, in alcuni periodi dell’anno, anche piccoli gruppi di donne nere. Bellissime. Qualcuna casca dal sonno, come avesse lavorato, non sono riuscito a immaginare a cosa, l’intera notte. Ma a cascare dal sonno, a quell’ora, non sono solo loro. E c’è una donna, che siede sempre al primo . Tenta di conquistarlo anche quando arriva in stazione che il treno sta per partire e la vedo arrancare. Si agita per la corsa che forse alla sua età non potrebbe più permettersi. Infine sale, si siede, aspetta qualche secondo che il respiro si calmi. Con gli occhi ostinatamente bassi e con fare ostile, di modo dallo scoraggare chiunque dall’avvicinarsi, fruga nella borsa che immagino, come ogni borsa di donna, piena di confusione e ne tira fuori dopo un mai breve cercare un librettino. Un quadernetto sgualcito, come quello delle vecchine in chiesa per le preghiere…

    il trenino, 3

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    Qualche mattina fa, stavo appena per riprendere la corsa, ho visto entrare nell’atrio della stazione una di quelle guardie che proprio pubblici ufficiali non sono, né polizia, né carabinieri. Uno di quei pattuglianti in divisa nera e blu che si muovono qua intorno come ronde, e a volte mi fanno anche un po’ paura. Ecco, guardie giurate, mi sembra si dica. Insomma, l’altra mattina ho visto uno di loro fendere la folla accompagnato, ma trainato sembrava piuttosto, da un molosso, che sembrava stesse lì lì per sguinzagliare a cercare chissà chi e chissà cosa. Aveva l’aria arrogante e minacciosa, la guardia. Aveva occhi umidi e buoni, il molosso, a dispetto della potenza compressa del suo passo. Quasi vergognoso, ho pensato, di quella inutile manifestazione di forza. Che avrebbe forse preferito sfoggiare in altri più degni luoghi, che non in una stazione di poveri pendolari. Che dal canto loro non mi sono sembrati affatto scossi, piuttosto infastiditi, devo dire, da quella cattiva presenza. Anche perché quelli che arrivano fra le sette e le otto, e sono i più numerosi, non hanno tempo da perdere. Sono sempre in corsa. In ritardo per qualcosa. In affanno per qualcos’altro. .. (continua)

    Un appuntamento

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    Aspettando, che Giuseppina arrivi a Roma. La Giuseppina, di Pierluigi Tortora. Una donna del Sud che ha attraversato il ‘900. E chissà quali e quante cose ha da dirci, Giuseppina. Nel racconto del suo tempo, di ieri e di oggi, fatto, ci spiegano, di ricordi del passato mentre il mondo intorno cambia. “Un microcosmo, spiega Tortora, che diventa macro perché le storie somigliano e riguardano tutte le donne e tutti gli uomini che come lei, stupiti e innamorati della vita, ne hanno smarrito l’orizzonte”. Giuseppina, una donna del Sud, dunque. Interpretato e diretto da Pierluigi Tortora, drammaturgia Matteo De Simone e Pierluigi Tortora, musiche di Antonio De innocentis. Una produzione Settembre al Borgo 2009 e la Bottega del Teatro.

    Appuntamento con “Giuseppina, una donna del Sud” dunque, al Teatro Vascello di Roma, dal 28 al 31 ottobre.

    riprendendo…il trenino, dunque

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    … Scompaiono, e io, appena svanito il corteo di viaggiatori che dalla periferia vengono a lavorare in centro, sono pronto per la nuova corsa, all’incontrario, con tutti quelli che dal centro vanno a distribuirsi qua e là in periferia. Alé! Changez! In uno scambio, permettete, persino io sospetto alquanto antieconomico. Ma la razionalità, mi sono arreso da tempo, non fa parte di questo nostro mondo. E il rimando a quest’idea del pendolo che oscilla con un’estremità fissata a un punto che inchioda a un campo da cui non c’è scampo, è cosa che, se ci penso,  mi dà la nausea. Che è quello che mi succede quando penso anche alla mia, di vita, avanti e indietro, avanti e indietro sempre su uno stesso binario. Che è cosa, il pensarci seriamente, che per fortuna mi capita raramente. Immaginate se ne possa avere il tempo, sempre in corsa fra un viaggio e l’altro. E la notte sono troppo stanco per perdermi in riflessioni che non portano a nulla. Cosa che immagino succeda anche a tutti i miei passeggeri, perché non mi risulta, almeno fino ad oggi, che qualcuno si sia mai sottratto alla prigionia di quel cieco andare. Troppo intorpiditi, fin dalle prime ore, anche solo per poter pensare di sottrarsi ad alcunché. Qualche settimana fa, stavo appena per riprendere la corsa… (continua)

    Incipit…

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    Ve lo assicuro, di tutto il via vai è la scena più bella. Me la porto nel cuore durante l’intera giornata. Mi aiuta a cancellare lo sconforto dei momenti di noia, che non sono pochi, in questo mio andare avanti e indietro, avanti e indietro. Dall’alba a notte fonda,  sul binario di una linea, fra il centro e la periferia. Arrivano con le prime corse della mattina. In gruppi di dieci, dodici e anche di più. Appartengono tutti alla stessa tribù. Scendono dai vagoni lanciandosi fra loro poche parole. Più spesso in silenzio. Gli occhi che frugano lontano. Anche, sospetto, nel tempo. Ma non so se sia il passato o il futuro, quello che vedono. Gli uomini, in molti, vecchi e giovani, con le stampelle. Le loro donne, molte di più, tutte, vecchie e giovani, con bambini. Spinti in carrozzelle, tirati per mano, avvolti in stracci colorati annodati al collo. Ti aspetti che scompaiano nel fiume dell’altra gente, che corre via in fretta, ognuno gia’ incupito del giorno che verrà. Invece ecco che prima di inoltrarsi verso l’uscita le donne si fermano…

    Notturno

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    Sono tornati, nella notte. Strida di gabbiani, grida di gatti. Squarci di sirena… A lacerare il tempo. A scrivere il buio.