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    La verità…2

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    Dunque, proseguendo. “Sto aspettando un arrivo, un ritorno, un segnale promesso. Ciò può essere futile o infinitamente patetico: in Erwartung (attesa), una donna aspetta, nella foresta, di notte, il suo amante; io sto aspettando solamente una telefonata, ma è la stessa angoscia. Tutto è solenne: non ho il senso delle proporzioni“. Da Barthes, che richiama Schonberg. Tumulti d’angoscia. E non è ancora neppure un inizio.

    La verità, infine…

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    “Mirra e delizia della vita m’è il ricordo delle ore/ in cui trovai la voluttà come la desideravo/ e la trattenni forte. Mirra e delizia e della vita / a me che disdegnavo ogni piacere dei consueti amori”. Pescando fra le “Settantacinque poesie” di Kavafis (Einaudi). Ripensando a un viaggio in Grecia. Alla ricerca dunque della verità, sull’amore. Che sarà, ora capisco, fingendo di giocare, il pensiero non più nascosto del mese che arriva. Chissà, se frugando, e rubando, e ancora cercando, in autunno, magari, la verità, infine, sull’amore…

    Paura, paure…

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    Che dire? Perfetto. Un risultato pressoché perfetto. Eccola qua, la Paura, signora infine delle nostre menti. E’ entrata da conquistatrice le nostre città, ha invaso le strade, come fumo dalle fessure e gli interstizi di porte e finestre è penetrata fin dentro casa, e ci insegue in ogni anfratto. Senza darci tregua. Più che paura ci sarebbe da parlare di vero terrore visto che, dall’elenco delle cose che secondo l’ultimo sondaggio ci spaventano, sembra non salvarsi nulla: paura della criminalità, paura degli altri, paura degli stranieri. L’elenco è lungo: paura della povertà, del domani, di incidenti e delle malattie. Di guerre e terrorismo, dell’ambiente. Paura del mondo. A nulla varrebbe obiettare, sempre che ancora non si sia terrorizzati dalle proprie parole, che qua e là, di questo o di quello forse motivo per aver tanta paura non ce ne è. Neppure mostrando e confutando dati. La paura che conta, quella vera, rassegnamoci, è quella percepita… il resto frottole, favole per bambini… e lasciateci lavorare.

    L’ultima emergenza

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    A proposito d’immigrati. Da oggi è stato d’emergenza nazionale. Per potenziare le attività di contrasto e di gestione del fenomeno, si comunica. E c’è da vergognarsi, leggendo l’ultimo bollettino migranti di peace reporter, che ricorda che nel mese scorso lungo le frontiere europee sono morti almeno 185 migranti. Di questi 173 soltanto nel canale di Sicilia. E sono solo quelli di cui si sa. Ma il mare è vasto e le rotte incerte. Questa, magari, la vera emergenza. Ma si sa, i tempi sono duri, il futuro incerto, l’amoralità tanta. Non c’è mai stato nulla di meglio che inventarsi fantasmi d’emergenze, che gonfino paure, che soggioghino le menti…

    C’è qualcosa che non va…

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    … e quindi, seguendo un filo lontano, e riprendendo in mano un libro di più di qualche anno fa. “L’olivo e l’olivastro”, di Vincenzo Consolo, appunto. Che ricordavo d’avere letto ma delle cui pagine la memoria era andata via. Dimenticanza, come tante altre, imperdonabile, se non venissero in soccorso dai tempi del liceo le parole del vecchio professore di italiano. “La cultura, disse a noi studenti, è quello che rimane dopo che si è dimenticato tutto”. E quindi, questa frase, da sempre la tengo d’acconto. Dal vuoto del tutto di quel libro era rimasto il senso del sapore di pietre arse, acqua salata e malinconie di lune. Che ho ritrovato, nel racconto del viaggio del ritorno in Sicilia, insieme alle immagini che compongono, quanto mai attuale, una metafora dell’Italia. Una sola frase, lasciando i dettagli del libro a chi volesse riprenderlo: “C’è qualcosa che non va. E’ come una musica stonata, come se le onde del mare facessero il rumore di un metallo che stride”. Era tanto tempo, ma davvero tanto, che terminate le pagine, non iniziasse il pianto.
    (L’olivo e l’olivastro, Vincenzo Consolo, Mondadori 1994)

    La verità, vi prego sull’amore

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    Domanda stravagante, eppure insistente, di una serata di mezza estate. Respinta, quasi d’istinto riaffiora, affidata a una poesia. Ancora una volta. Dunque, W.H. Auden: “…I manuali di storia ce ne parlano/ in qualche noticina misteriosa,/ ma è un argomento assai comune / a bordo delle navi da crociera; / ho trovato che vi si accenna nelle / cronache dei suicidi, / e l’ho visto persino scribacchiato / sul retro degli orari ferroviari. // Ha il latrato di un alsaziano a dieta, / o il bum-bum di una banda militare? / Si può farne una buona imitazione / su una sega o uno Steinway da concerto? / Quando canta alle feste, è un finimondo? / Apprezzerà soltanto roba classica? / Smetterà se si vuole un pò di pace? / La verità, vi prego, sull’amore”…
    Ancora una volta versi di poeti. Che ritornano. Soppiantando ogni prosa. E viene da chiedersi perché. Una risposta, ritrovata con Vincenzo Consolo: essendo caduta la fiducia nella comunicazione “…non rimane che la ritrazione, non rimane che l’urlo o il pianto, o l’unica forza oppositiva, alla dura e sorda notte, la forza della poesia, della tragedia…” (da Fuga dall’Etna, Donzelli 1993) .

    Nemici alle porte

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    A proposito di nemici alle porte. Riprendo, dal sito di Repubblica, una notizia di oggi, ennesima replica di una notizia di ieri, l’altro ieri, e ieri l’altro ancora…: “Tre cadaveri sono stati recuperati a largo di Lampedusa dalla nave “Fenice” della Marina Militare. Il gommone su cui viaggiavano si sarebbe ribaltato a causa dell’agitazione scoppiata tra i passeggeri che hanno visto avvicinarsi l’unità militare. Sul natante c’erano almeno 76 persone, di cui 48 tratte in salvo. Intanto proseguono le operazioni di soccorso per raggiungere gli altri dispersi: sarebbero almeno 25 le persone ancora non individuate”. Da cercare, magari, in fondo al mare. Così affollato, si immagina, di morti. Quasi a consolarsi, per cancellare il pensiero del dolore di fame, sete, e del sale arso che corrode il corpo, la dolcezza dondolante di un verso: “… e gli spolpò le ossa in sussurri”. La morte per acqua. Dal solito Eliot.

    Il lusso di sognare…

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    A proposito di rom, e di persecuzioni. Appena terminato di leggere un libro che sembra struggere fin dal titolo. Forse sogno di vivere. E dal sottotitolo. Una bambina rom a Bergen-Belsen. Rievocata, la bambina che è stata, da Cenija Stojka, cinquant’anni dopo. Ritrovando le parole della bambina di allora. Le parole dello stupore di fronte a una quotidianità fatta di violenze, di fame, di tormento, di immagini di morte che non si posso immaginare. Stupore rimasto intatto, cinquant’anni dopo, e non c’è traccia, nel racconto, di odio. Semplicemente un narrare lucido e ostinato, per chiedersi e chiedere, ancora: come è stato possibile? E testimoniare la volontà di vita. Pagine di una cantatrice, che come in un lamento senza lamento culla il ricordo di quei giorni, di lei, della sua mamma… Le sue parole, più di qualsiasi commento: “La cosa peggiore per noi era l’arrivo dei treni alle tre di notte.

    Buono come…?

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    Le parole. Capita ci si comporti davvero male con le parole. Con una certa distratta cattiveria direi… Come quando con finta indifferenza le si depriva a poco a poco del loro significato. Si comincia col distorcerne giorno dopo giorno, appena appena un po’, il senso. E poi chissà dove si finisce. Una parola, ad esempio, semplice e assai comune, come l’aggettivo, “buono”. Tanto semplice e comune che sembra non valga la pena di stare lì a perdere tempo per cavillare sull’uso che accade se ne faccia. Eppure… Sarà solo una questione di scuola e di pagelle, ma fa un certo effetto sentire il tono mesto di un bambino mentre “ammette” che in una certa materia ha preso “solo” buono. Solo? Sì, mi si fa capire, un giudizio davvero buono è “distinto”. Il massimo sarebbe ottimo, ma questa è un’altra storia. Ma “buono” è buono, viene da ribattere. “No, non molto”, la risposta. “Ora è così”. E non si sa che rispondere. E non si riesce a capire. Il cervello incespica. Non si diceva, ad esempio, “buono come il pane”?

    Meriggiare…

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    “Meriggiare pallido e assorto/ presso un rovente muro d’orto,/ ascoltare tra i pruni e gli sterpi / schiocchi di merli, frusci di serpi/…”
    Solo un pensiero, non trovando quiete nella notte afosa, a Montale, riscoperto, lungo un sentiero d’isola, in un giorno bruciato d’estate.